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Comunicato stampa Luminet

Genova, 28 ottobre 2012. Uno chiede all’altro di farsi spedire un cannocchiale, l’altro risponde per anagrammi. E però ciascuno studia le carte dell’altro, c’è uno scambio epistolare e anche di aiuto (il trattato di ottica di Keplero viene in aiuto alle tesi di Galileo proprio mentre veniva accusato di utilizzare uno strumento “magico” e ingannevole come il cannocchiale). È la storia di due geni che non si incontrano mai, quella di Galileo e di Keplero raccontata da Jean-Pierre Luminet in Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale. Due geni sognatori, capaci di guardare oltre i confini dell’immaginazione. Come quando Keplero intuisce un futuro in cui ci saranno navi spaziali, e scrive “prepareremo delle carte del cielo per questi arditi navigatori. Io lo farò per la luna e tu, Galileo, lo farai per Giove”. Il periodo storico, per gli scienziati, non è certo dei migliori. Siamo nell’era del Concilio di Trento, racconta Luminet, in cui “la Chiesa cattolica romana ha bisogno di consolidare il proprio potere nei confronti del Protestantesimo: e dunque il Concilio stabilisce che sono i teologi a dover dire l’ultima parola sulle ipotesi degli scienziati, allora detti filosofi della natura. Sono loro, insomma, a dover stabilire se queste ipotesi corrispondano a verità, quella con la “V maiuscola”. Non potrebbero essere più diversi, Galileo e Keplero. Galileo, infatti, fin da giovane vive in un ambiente di grande cultura: “L’immaginazione scientifica si nutre di altre forme di immaginazione, anche artistiche ed estetiche. Prima delle sue osservazioni con il telescopio ricostruisce la bilancia idrostatica di Archimede, tiene una lezione sulla geografia che secondo lui viene dall’Inferno di Dante e grazie a questo, a soli 25 anni, gli viene assegnata la cattedra di Matematica all’Università di Pisa”. Galileo inizia a fare esperimenti con i gravi: “L’idea è che se si lasciano cadere una piuma e un pezzo di piombo non arrivano a terra nello stesso momento per l’attrito dell’aria, ma se si facesse l’esperimento senza atmosfera cadrebbero alla stessa velocità. Fa poi esperimenti con i piani inclinati e comincia a intravedere le leggi del movimento che saranno poi perfezionate da Newton. Insegna anche architettura militare, era molto versatile. E costruisce anche un particolare tipo di compasso: sa vendere molto bene il proprio talento”. Keplero, racconta Luminet, nasce invece in un ambiente più modesto: la madre era locandiera, il padre un mercenario che combatteva in tutta l’Europa. “Nasce prematuro, per tutta la vita ebbe problemi di salute, non ci vedeva bene, ma questo non gli impedì di diventare un famoso astronomo. In quel periodo l’istruzione gratuita era garantita, e andando in seminario venne fuori che era un genio. È un luterano convinto, poi va all’Università di Tubinga, studia le teorie copernicane e intuisce che quella è la strada giusta. Durante una lezione di matematica che tiene davanti ad allievi un po’ addormentati, Keplero ha un flash: immagina il mondo in maniera geometrica, iscrive sfere in poliedri e capisce che corrispondono alle orbite dei pianeti intorno al sole: crede che questa sia l’architettura del mondo. Credeva che dovesse esserci un’armonia geometrica del mondo, pianificata da Dio. Keplero manda il suo Misterium Cosmographicus a Galileo. E Galileo lo ringrazia per avergli mandato l’opera e gli dice che anche lui è un copernicano”. Keplero diventa assistente di Tycho Brahe, che aveva intuito una sua idea di cosmo ma non riusciva a dimostrarla. “Lavorano insieme per 18 mesi: mesi di discussioni accese su tutto, ma sono molto fruttuose. Quando Brahe muore, Keplero diventa matematico imperiale, ministro della Ricerca. Lavora a Praga sotto l’egida dell’imperatore Rodolfo II. Keplero si impadronisce sugli appunti di Tycho Brahe sul moto degli astri, e prova a capire il mistero del mondo. Poi pubblica la sua prima legge: abbandona il paradigma del cerchio per rappresentare il cielo. Si rende conto che non funziona e trova l’ellisse”. Sono i primi anni in cui comincia ad essere utilizzato il cannocchiale astronomico. Viene venduto alla fiera di Francoforte, e finisce tra le mani di Galileo. “Il genio pratico di Galileo ne approfitta per chiedere il doppio di stipendio come professore al Doge di Venezia. Poi fa costruire alle vetrerie di Murano lenti migliori e le punta sul cielo, avventurandosi in un campo che non conosce. Galileo, infatti, non era un astronomo, era un fisico. Osserva la luna e ne evidenzia la natura, dicendo che assomiglia alla Terra. Scopre anche piccole stelle che girano intorno a Giove, e poi macchie sul Sole: un universo del tutto nuovo e incompatibile con quello di Aristotele”. Sarà Keplero – continua Luminet - a introdurre il termine satellite e in un opuscolo immagina il futuro dell’astronomia e dell’astronautica. “Galileo, in questo periodo, è in difficoltà: lo accusano di usare uno strumento magico, ingannevole. Ma Keplero lo soccorre chiedendosi come funziona questo cannocchiale: e nel 1611 scrive il primo trattato di ottica. Galileo fa tradurre quest’opera in italiano, ne è molto felice. Ma non manda a Keplero un cannocchiale come lui gli aveva chiesto. Keplero riesce comunque a recuperarne uno, e i suoi assistenti confermano quello che ha detto Galileo sui satelliti di Giove”. “Le relazioni tra i due – racconta Luminet - prendono una piega strana, è Galileo più reticente a comunicare con Keplero anche se sente un debito verso di lui. Comunica le sue nuove scoperte a Keplero ma attraverso anagrammi indecifrabili: scopre i futuri anelli di Saturno e che Venere ha delle fasi”. Entrambi, intanto, continuano i loro percorso paralleli: “Keplero immagina un sistema musicale applicato alle orbite planetarie: una vera e propria musica delle sfere”, Galileo continua a puntare il suo sguardo nell’universo, sfidando la Chiesa e il senso comune. Entrambi sorretti dalla voglia visionaria di continuare a cercare, e a immaginare.
 

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